Volevo fare finta di niente, almeno oggi volevo mettere da parte le emozioni e per un giorno non sentire nulla, essere come anestetizzata.
Niente, sono fatta così, troppe emozioni.
18.15. Ormai le giornate sono più corte e questo tempo mi fa sempre sentire che non è mai abbastanza e che per buona parte lo stiamo sprecando.
Finisco – per modo di dire – le ultime cose e spengo il pc, tanto ci vediamo domani. “Mezza giornata“, diranno tanti, “dov’è il mio tempo?” penso io.
Esco a fare due passi, ma giusto due, che tempo che usciamo e prendiamo qualcosa per cena, è già tempo di tornare.
Perennemente affannati, andiamo sempre di corsa, ce lo diciamo sempre, lo dicono tutti, lo dico ormai anche io. Corriamo e siamo sempre al punto di partenza, vabbè ci penso domani a questo va.
Torno a casa, mi metto il pigiama e inizio a preparare la cena. In questi momenti la mia mente se ne va più libera del solito, che a volte, se non le metto un freno, rischio di perdermela. E io con lei.
Ecco, ci siamo, ero quasi salva da quel piccolo e insignificamente momento di qualche ora prima che quasi ci avevo creduto ad una giornata senza troppe strane emozioni.
Solita passeggiata a metà giornata, solito abbigliamento del “tanto mi faccio solo un piccolo giro“.
Il mio vestito ha dei bottoni. Inizio a giocare con uno di loro. C’è un filo che mi fa capire che questo bottone – un po’ come gran parte di noi – vive in un equilibrio che un nonnulla può sconvolgere. Non mi fermo, continuo a giocarci, ho la testa tra le nuvole.
Sconvolgo l’equilibrio.
Tiro troppo il filo, il bottone si stacca.
Penso a quando ero piccola e sentivo dire “tira tira che prima o poi la corda si spezza“.
Ho spezzato la corda, il bottone è caduto.
Lo intravedo fare il suo piccolo volo e in un attimo è sparito. Avevo appena finito di attraversare la strada e questo bottone è finito esattamente sotto una macchina parcheggiata tra il “non potrei” e il “vabbè sto cinque minuti“.
Rimango lì ferma per qualche secondo.
Guardo a terra e realizzo che il bottone è proprio lì sotto e che di certo non sarà lui a decidere di avvicinarsi a me. Se non lo riprendo io, non lo riprenderà nessuno, finirà per rimanere sotto quella macchina, fino a che il proprietario non la sposterà e il bottone inizierà a rotolare da una parte all’altra fino a diventare qualcosa di irriconoscibile. Non sarà più il mio bottone, probabilmente non sarà più nulla.
Faccio qualche passo lontano dalla macchina.
Sto per inquinare il mondo solo perché non ho nel mio raggio visivo il bottone. Sto per inquinare il mondo, abbandonare il bottone, lasciarmi un vestito con un buco solo perché ho sempre paura a prendere anche le mie cose.
Che cavolo, no dai, e poi questo vestito mi piace pure.
Mi avvicino di nuovo alla macchina.
Mi chiedo se dall’esterno sembra che sia interessata a quella macchina o sia solo una con qualche rotella fuori posto.
Continuo a guardare per terra. Sono in questa situazione di impasse assurda. Se stessi guardando un film e la protagonista fosse nella mia situazione mi verrebbe da darle una spinta dicendole “Muoviti diamine che aspetti?“. Non è però un film, sono io e questo è il mio assurdo modo di essere.
Passo in rassegna tutte le soluzioni. Potrei avere un bottone uguale a casa, di quelli che attaccano ai vestiti per chi come me gioca a spezzare la corda e così potrei riparare il vestito. E se poi non ho lo stesso bottone? E se poi ce l’ho e penso sempre che ho inquinato il mondo e ho abbandonato quel bottone che non c’entra niente? Ecco, ci manca pure che mi metto a personificare gli oggetti, forse non sono sensibile, sono solo davvero con qualche rotella fuori posto.
Se invece mi abbassassi un po’ per valutare la distanza tra me e il bottone? Se solo dessi a lui una possibilità e io uscissi da questa impasse avendoci anche solo provato? Certo, questa macchina è davvero parcheggiata in un modo che quasi rischio la vita, ma diamoci una mossa.
Mi inchino, lo vedo, è vicino la ruota, esattamente tra il “potrei farcela con un po’ di sforzo“, e il “lo lascio lì che magari mi strappo un muscolo“. Penso a quante volte mi sia trovata davanti a questo bivio e abbia poi scelto la strada del lasciare perché avevo troppa paura di perdere, anche se in fondo quello che avevo nemmeno mi piaceva, nemmeno mi faceva stare bene.
Magari se inizio dalle piccole cose, poi arrivo a quelle grandi.
Imbocco una terza strada, quella del “potrei farcela e se mi strappo un muscolo poi ci penso“. La mia spalla tocca la ruota posteriore, io comincio a tastare l’asfalto in cerca di un senso della vita tra tutto quello che non ce l’ha.
Eccolo lì.
Lo afferro.
Mi tiro su.
Non mi guardo intorno, spero solo che nessuno mi abbia visto.
Non mi sono strappata nessun muscolo, ho solo la spalla sporca di nero, i segni della ruota però si cancellano, la piccola gioia del non aver abbandonato il bottone quella resta.
Lo stringo tra le mani.
Mi commuovo quasi, non per il bottone sia chiaro (no vabbè anche un po’ per lui), ma perché penso che in fondo con me e la mia essenza dovrei fare esattamente questa stessa cosa.
Raccogliermi, accogliermi, stringermi, tenermi, non lasciarmi a terra permettendo all’esterno di annullarmi, di non farmi più essere me, di arrivare ad essere nulla.
E mentre lo penso la cena sta bruciando, quindi riprendo la mente, prometto al bottone di cucirlo e intanto osservo la mia essenza all’angolo del cuore che mi aspetta.
Filosofa Atipica
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