Cosa vuol dire oggi essere se stessi? Siamo certi di riuscire a proteggere la nostra essenza, ciò che ci fa essere noi stessi, di fronte un tempo che sembra apprezzare l’imago facendone la caratteristica principale, se non l’unica? Oggi conta ancora la bellezza interiore o si è solo alla ricerca del profilo migliore da sfoggiare? Quanto siamo autentici? Quanto ci stiamo garantendo la possibilità e la libertà di essere diversi?

Riflettendo a fondo sul nostro presente uno dei dati più allarmanti sembra essere la totale perdita di unicità, della possibilità di essere se stessi e soprattutto sembra che l’unicità sembra essere ricercata nell’omologazione: siamo unici se siamo uguali. Ma non è forse questa una vera e propria contraddizione? Non si sbaglia a definire questo nostro tempo “paradossale”, considerando il fatto che si preferisce morire nell’apparenza piuttosto che risplendere nell’essenza. L’unicità, la particolarità e la singolarità di ognuno si esprime proprio in questa, nell’essenza, in ciò che ci fa essere quello che siamo. Se però quello che siamo, o meglio, la voglia di essere fino in fondo la nostra essenza, si smarrisce dietro un mondo che ci concede un posto solo se rispondiamo positivamente all’omologazione, smettiamo di essere ciò che siamo e lì siamo morti senza esserlo davvero.

Cosa c’è di più terribile di una vita che non viene vissuta nella specialità che le appartiene? Cosa c’è di più maledettamente contraddittorio di un essere umano che smette di essere tale? Cosa c’è di più triste di un individuo che cede la possibilità della propria diversità? Biologicamente parlando l’essere umano sta perdendo la possibilità di imprimere la propria essenza nei circuiti neurali, sta cedendo – volontariamente – la propria plasticità. Filosoficamente parlando l’essere umano sta abbandonando la possibilità di tracciare la propria impronta nel mondo che è unico nella misura in cui unici sono gli essere umani che lo abitano.

Probabilmente il cedere all’omologazione nasce dalla paura di sentirsi isolati in una società che raramente apprezza il pensiero critico, che spesso relega ai margini coloro i quali operano una riflessione profonda su chi siamo e su come il consumismo non faccia altro che porre un freno alla possibilità di essere diversi, e quindi unici. Uno dei massimi neurobiologi italiani, Lamberto Maffei, dedica profonde riflessioni – scientifiche e sociali – su quanto l’omologazione ci stia conducendo verso un “cervello globalizzato” che è lo specchio dell’abbandono della propria plasticità. Scrive a questo proposito un libro, La libertà di essere diversi (2011), in cui – indagando le strutture neurali proprie di ogni individuo – sottolinea la differenza del “cervello globalizzato” e il “cervello collettivo“. Quest’ultimo è quello che fa sì che ogni essere umano si riconosca uguale, quello grazie al quale ci è possibile comunicare, mentre l’altro – il cervello globalizzato – come già evidenziato, è quello che impedisce all’individuo di essere essenza autentica.

La “libertà di essere diversi” è il dono più grande che possa essere stato fatto all’essere umano ed è impensabile – se non ingiusto – dimenticare questa possibilità e perderla per ricercare una fredda omologazione che ci fa perdere i nostri peculiari tratti specie-specifici. Nel tempio di Apollo a Delfi si legge “Nosce te ipsum“, sottolineando così la possibilità di conoscersi nelle grandi possibilità che ci appartengono e che nascono proprio lì dove si permette alla diversità di emergere e soprattutto indica la necessità e il compito a cui ogni individuo è chiamato a rispondere: conoscere se stesso al fine di vivere consapevolmente, dal momento che è solo la consapevolezza che ci permette di vivere responsabilmente. Grazie alle recenti scoperte delle neuroscienze – che si sono allontanate dall’ombra del riduzionismo biologico – questo “conoscersi” sembra diventare una “concreta” possibilità. È stato infatti dimostrato la profonda plasticità cerebrale di ogni essere umano e quanto questa caratteristica appartenga al cervello umano per la sua intera esistenza, motivo per il quale coltivare consapevolezza su chi siamo – e su come non possiamo prescindere dall’alter dal momento che essere se stessi equivale ad esserlo con altri – sia necessario.

Ognuno di noi ha il compito di mantenere integra la possibilità di esercitare questa nostra plasticità, di non cederla al mondo che altrimenti ci “plasmerebbe” come meglio desidera, e soprattutto, come meglio gli conviene. Abbiamo potenti strumenti, nel cuore e nel cervello, dovremmo assumerci responsabilmente la possibilità di utilizzarli al fine di sviluppare pienamente la nostra essenza, che si esplica in relazione con gli Altri, una relazione autentica in cui ci sia il pieno riconoscimento della diversità – e quindi unicità dell’altro. Fa paura non cedere all’omologazione e ricercare la nostra essenza, fa paura per il senso di esclusione e di inadeguatezza che si potrebbe provare, ma cosa accadrebbe se ognuno di noi decidesse di perseguire quello che ci rende unici e proteggendo la propria diversità nel pieno rispetto di quella degli Altri? Si arriverebbe forse a vivere in una società in cui ognuno può vivere autenticamente quindi all’insegna di un’essenza che si esplica nella relazione?

Filosofa Atipica per MIfacciodiCultura

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