Fino a 25 anni sono stata una studentessa.
Dai 25 anni mi sono affacciata al mondo, quello del lavoro.
Che strana finestra… comunque, arriviamo a noi.

Dopo sei anni che sono affacciata da questa finestra, non so come, mi è venuta in mente la mia prima settimana di lavoro. Ero da un’altra parte, ero un’altra persona e avevo un’altra mente, ancora quella di una studentessa.

Tram, libro, penna, quaderno e confusione: “che ne sarà di me?”.

Trenta minuti di anticipo, perché voglio fare bella figura. Non ci sta nessuno, la bella figura l’ho fatta con me stessa. Sono le nove e un quarto – 15 minuti accademici valgono ovunque – e finalmente mi aprono.

Do del lei a quelli che vedo più grandi di me.
Iniziamo male.
Nel mondo del lavoro ci si da solo del tu.

Mi chiedo se quando Buber filosofeggiava sul mondo io-tu immaginasse che tutti non si sarebbero mai dati del lei. Chissà.

Mi fanno sedere in quello che dovrebbe essere il mio posto. Non ho una scrivania, ma ho un pezzo di tavolo che condivido con altre persone. Di fronte a me il muro.

Sono cresciuta con una stanza senza finestra sul mondo, e andava anche bene perché potevo uscire quando volevo, ma certo, stare otto ore fronte muro non è il massimo. Ricordo ancora le singole venature di quel muro bianco. Con alcune direi quasi di averci fatto amicizia.

Accanto a me ho un ragazzo, sembra abbastanza taciturno.

Sono cinque giorni che mi sono laureata, penso di avere il mondo in mano, insomma hanno detto: “Con i poteri conferitemi” dovrà pure significare qualcosa no? E poi, diamine: “la dichiaro Dottoressa in Filosofia“. Insomma sono una filosofa, devo per forza parlare no?

Gli chiedo semplicemente come sta. Mi dice che è in prova. Lo guardo. Lui ha gli occhi agitati, io sono perplessa. Da quando il come stare coincide con cosa si sta facendo? Dopo sei anni affacciata su questo su mondo ancora me lo chiedo.

Comunque, andiamo avanti.

Lui rivolge lo sguardo al computer. Mi sento abbandonata. Come, potremo diventare amici e mi liquidi così? Ci riprovo, sono una filosofa da cinque giorni, mica mi arrendo così facilmente.

Ti piace quello che fai?“, gli chiedo, io piccola ingenua. Mi dice che deve consegnare questo lavoro “ieri”. Credo sia una battuta, dopo sei anni capirò. Ci risiamo, un’altra risposta che non c’entra niente con la domanda. Di nuovo i suoi occhi rivolti al computer. Mi chiedo se sia semplicemente timido, tanto concentrato, oppure semplicemente gli sto antipatica, così a pelle.

Scusami non volevo disturbarti“, gli sussurro, dispiaciuta e confusa. “Non preoccuparti“, mi dice lui. Gli ho rotto palesemente le palle e non si è fatto scrupolo di farmelo sapere.

Mi ricordo ancora di come quelle due parole mi avevano buttata giù. Volevo solo essere gentile, fare amicizia, conoscere le persone con cui avrei condiviso gran parte del mio tempo, però a quanto pare io, le mie domande, eravamo scomode.

Finisce così il mio primo giorno.

Il giorno dopo torno, di nuovo lì, dopo nemmeno 12 ore.

Il ragazzo accanto a me sembra più sereno. “Buongiorno, come in loop eccoci di nuovo qui“, sono ironica, ma questo tipo di ironia al mondo del lavoro non piace, lo scoprirò con il tempo. Comunque accenna un sorriso, forse dovremo darci una seconda possibilità, penso.

Non sei in stage tu vero?“, gli chiedo. Ho capito che se voglio entrarci in confidenza, devo stare sulla sua stessa lunghezza d’onda. Domande precise a solo scopo lavorativo, nulla di più. “No, sono in prova per la posizione di designer“. Capisco che è solo molto agitato, che ci tiene a quel posto, a trovare un lavoro. “Sono qui se metti possa aiutarti in qualcosa“, gli dico. Mi sorride, questa volta davvero.

Passa così la mia prima settimana in questo mondo. Un computer poco collaborativo, un muro bianco, ma almeno ho la prospettiva di un buon collega.

Lunedì. Inizio la mia seconda settimana lavorativa. Non sono affatto entusiasta, ma fa nulla, ci penseremo poi.

Il mio potenziale amico non è lì.

La sua sedia è vuota.

Sono turbata, non ho il suo numero e non posso chiederlo. Allora prendo coraggio e mi rivolgo agli altri che condividono con me quella stanza. “Non ha superato la prova, troppo silenzioso, timido, poi ci metteva molto a finire le cose“. Li fisso, sono sconvolta. “Non l’ho salutato“, dico io cercando anche nei loro sguardi qualcosa che si avvicini al dispiacere.

Nessuno dice nulla, tutti tornano a lavoro. Tutti guardano i computer.

Dopo sei anni non mi abituo ancora a questo mondo, lo vorrei diverso, credo anche che dovremo pretenderlo diverso, più umano.

Chissà se sono l’unica a pensarlo, oppure lo pensiamo in tanti, ma abbiamo solo paura.

Comunque poi sono riuscita a salutarlo quel ragazzo, per mail, ma meglio di niente. L’unica cosa che avevo era proprio la sua mail, quindi gli ho scritto, gli ho detto di non perdere la speranza.

Chissà se ci è riuscito a non perderla davvero.

Chissà.

Filosofa Atipica

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