In un'(in)solita mattina, un cuore parlò al mio cervello…
Mi sveglio come tutti i giorni allo stesso orario, ma per la prima volta non penso al fatto che vorrei una giornata diversa. Un’(in)solita mattina questa. Qualche tempo fa nemmeno ci pensavo, ma qualche tempo fa era l’entusiasmo, misto alla mia solita malinconia, a svegliarmi, e quindi, è un’altra storia.
Torniamo alla mia (in)solita mattina.
Una mattina (in)solita questa, una in cui è tutto uguale tranne il pensiero che mi sveglia – oltre alla sveglia, ovvio.
Una mattina (in)solita. Tutto è insolito, senza parentesi a modificare la realtà. Tutto è insolito perché non c’è nessun tipo di pensiero. Si sa che la maggior parte delle persone non hanno pensieri di prima mattina, o almeno pensieri che hanno una reale forma nel limbo dei pensieri stessi. Per me non è così: il mio cervello è più in forma del mio corpo e quindi è sveglio un minuto prima della sveglia. Sveglio per informarmi sulla mia condizione di essere umano, o meglio ancora, per fare onore alla mia laurea, il mio cervello è pronto per informarmi se sto seguendo la giusta strada per rendermi felice, come vorrebbe Aristotele.
Stamattina no; stamattina – la mia (in)solita mattina – il mio cervello non mi ha comunicato nulla e io non me ne sono accorta. Devo ammettere che Aristotele ora non sarebbe fiero di me, non lo sono nemmeno io, forse non lo sei nemmeno tu, ma abbiamo tutti paura ad ammetterlo, ma anche questa è un’altra storia, e allora andiamo avanti.
Ultimamente mi chiedo spesso se sia inevitabile smettere di chiedersi perché e se va bene – a prescindere – che le cose vadano così. Se va bene chinare il capo e non guardare il cielo.
Ultimamente mi chiedo spesso se sia obbligatorio lasciare la nostra essenza di esseri umani per essere semplicemente esseri. Senza consistenza, senza sogni, senza ideali, senza motivi per lottare, per gridare. Mi chiedo spesso, ultimamente, se il nostro stesso senso di vivere non sia un motivo giusto per imporre la nostra volontà, per sentirci di nuovo vivi. Mi chiedo se sia l’unica a domandarselo, mi chiedo se prima o poi anche io leverò di dosso l’aria da punto interrogativo: irriverente, disarmante, ingenua, vera. Mi chiedo se alla fine indosserò anche io l’aria dei puntini di sospensione, che lasciano intendere, ma non parlano mai.
In un mondo che odia le parentesi, io mi diverto ad aprirne tante e a girare su me stessa fino a tornare ad un punto diverso di partenza, ma che alla fine ci ricondurrà di nuovo dove volevamo. Il mondo è tondo, ma ce lo dimentichiamo sempre.
Ma ora facciamo contenti questo mondo di cui tanto parlo, facciamolo contento per un secondo e torniamo a questa solita mattina con il sapore insolito.
Il mio cervello senza pensieri non faceva chiasso, il cuore l’ho già dimenticato da un po’ e gli occhi sono prosciugati da quando in un aereo ci ho lasciato la speranza che basta impegnarsi fino in fondo, con le ossa e con il sangue, per raggiungere la vetta.
Sono uscita di casa, presto, come sempre, come in passato piaceva a me perché il cielo, quando è mattino, è sgombro dai pensieri del giorno. Solita strada, solito passo, solita musica, diverso umore.
Un umore senza colore. Cosa vuol dire senza colore? Il colore “nulla” ha il colore dell’assenza, ma l’assenza di che colore è? Altra parentesi, altro motivo per indispettire il mondo fatto di esseri che non hanno tempo per le parentesi, considerate come un ostacolo alla corsa senza tempo a far finta di essere qualcuno.
Stesso mezzo pubblico perché le distanze sono sempre troppo lunghe per essere riempite con il rumore dei nostri passi. Sono al capolinea e lì raramente manca il posto per riposarci da una giornata in cui faticheremo sempre meno rispetto a quanto immaginiamo. Leggo un libro per riempire quell’unica ora in cui non sono costretta a fare qualcosa. Leggo e viaggio con la mente, mentre qualcuno si preoccupa di portarmi da un’altra parte rispetto a dove vorrei.
Siamo partiti, io e altri esseri umani, io con il cervello fuori uso e la gente con le mani occupate ad accarezzare piccoli specchi di mondo virtuali.
Siamo partiti e alla seconda fermata sale un signore. L’età è quella di chi ha iniziato a vivere di ricordi. Alzo lo sguardo, incrocio il suo. Elegante, educato, preciso. Penso che sia il caso di farlo sedere, ma mi chiedo, con il cervello in stand-by, perché tra tante persone della mia età, sia sempre io a dovermi alzare.
Fermi tutti, altra parentesi. Che non me ne vogliate, ma questa è necessaria. Rifletto un secondo, mentre rileggo quanto ho appena scritto. “Dovermi“: che brutta parola, ci sentiamo costretti, a volte, ad essere gentili. Voglio tornare indietro di qualche frase e correggere scrivendo: “mi chiedo perché sia io a volermi sempre alzare“. Sento il bisogno di correggere il verbo “dovere” con “volere”, ma non lo correggo, o meglio, lo sostituisco non cancellando l’errore. Lo lascio scritto, perché ho il bisogno di dimostrare che è possibile, con la riflessione, riconoscere i propri errori e con il coraggio è possibile ammetterli e con l’amore è possibile rimediare. E quindi, torniamo a noi, chiudiamo la parentesi con un verbo che esprime la volontà di essere gentile e non l’obbligo. Mi chiedo, quindi, perché sembra che sia sempre io a volermi alzare.
Ecco cosa succede ad avere a che fare con la parte marcia del mondo: iniziamo a marcire anche noi. Ho rimesso gli occhi nel libro intenzionata a non mischiare di nuovo la mia realtà con quella del signore abitato dai ricordi. Il cuore però parla sempre, anche quando pensiamo che non parli più. Non voglio marcire con il mondo, voglio avere la consapevolezza di averci provato a spargere gentilezza un po’ lì e un po’ qui. Mischio di nuovo lo sguardo a quello del signore e mi alzo. L’eleganza di un signore che nei suoi ricordi fu sempre gentile, non voleva che gli cedessi il posto, ma alla fine ce l’ho fatta a dargli un pezzo diverso di quella realtà fatta di passato. Ho letto ancora un po’ in piedi, giusto il tempo per arrivare al momento preciso in cui la storia poteva essere chiusa momentaneamente per essere ripresa in un’altra solita mattina.
Osservo tutti mentre faccio il mio piccolo viaggio quotidiano. A volte penso che a qualcuno possa dar fastidio questo sentirsi studiati, ma sono tutti presi dal grigio e quindi nessuno ci pensa, nessuno si accorge di me che scruto gli occhi di tutti e immagino i loro pensieri.
Questa (in)solita mattina vedo un signore accanto a me che sembra un marinaio. E allora mi distraggo a pensare a come sia arrivato a scegliere il mare invece della terra, anche se la risposta, almeno per me, è ovvia: il mare è magico. Mi chiedo se la terra sotto i piedi manca quando sei cullato tutto il giorno dalle onde e mi chiedo se è vero che il respiro è più profondo, più vero, quando sei nel centro dell’universo. Ad un certo punto entra una signora che fa fatica ad infilarsi in questo tetris di carne, allora questo signore – ormai per me un marinaio – bussa leggermente sul braccio di una signorina, forse per dirle di spostarsi perché quella signora ha bisogno di una mano per trovare un posto in quel piccolo mondo su tante ruote. Ma la ragazza ha la musica nelle orecchie, ha il vuoto negli occhi e il cervello anestetizzato. Insomma, non ascolta, non sente, non si gira, rimane ferma e quel signore si arrende al mondo che va così.
Si arrende, ma non troppo.
Parla ad alta voce e commenta quella condizione di essere finti esseri umani. La nostra condizione. Ci sono un po’ di luoghi comuni in quello che dice. Anche lui, come il signore di prima, è nell’età in cui si vive di ricordi. I suoi sono ricordi più forti, meno eleganti, o meglio, di un’eleganza diversa. Sono travolgenti. Ecco sì, l’aggettivo giusto è “travolgenti“: i ricordi di questo signore scompigliano i miei pensieri.
Mentre lui parla, dicendo una verità non troppo lontana da quella reale, nessuno lo ascolta davvero. C’è chi annuisce, ma gira lo sguardo, chi pensa sia matto, chi con un gesto istintivo controlla se abbia ancora il portafoglio, il cellulare, un senso al perché non si lascia andare al nulla. Io sono tra quelli che annuiscono, ma al contrario loro, non giro lo sguardo. Io mi perdo nella mente perché osservo quella degli altri e non distolgo lo sguardo. Lui si gira e mi parla. Mi dice che il mondo come lo stiamo costruendo è assurdo, che noi giovani dovremmo urlare, che la felicità non è alla nostra portata e non facciamo nulla per avvinarci a pretenderla. Io rimango a fissarlo, immobile. Il cervello ancora in stand-by e io che ancora non me ne rendo conto.
Mi chiedo, quando mi dicono queste cose, queste cose sul futuro, se forse non siano stati anche gli errori di quelli prima di noi ad averci ridotto ad essere involucri vuoti, ma poi mi rispondo che bisognerebbe andare ancora più indietro, che forse ha ragione il signore, che forse, noi giovani, dovremmo fare come nel passato di questo marinaio, quando era un giovane e si ribellava al mondo che lo voleva schiavo senza catene.
Mi racconta di quando prendeva di petto le cose che non andavano, di quando gli ostacoli si affrontavano e non si aggiravano. Mi dice che guardandosi intorno, guardando i suoi compagni di viaggio per quella mattina, gli sembra di guardare il mare all’orizzonte «tutto tace», dice, mentre io penso alla metafora del mare, proprio lui che sembra un marinaio.
È afflitto da un mondo sbagliato, da una società contorta. È deluso da come gli sforzi fatti in passato siano stati vanificati sotto la spinta del potere di pochi e la pigrizia dei più a non dire no. È terrorizzato dal vedere tutti con la faccia immersa in uno schermo tanto da non rendersi conto delle difficoltà di un’anziana signora a trovare il modo di non perdere equilibrio in un viaggio precario.
Mi guarda, e a me che sembro ancora una bambina, mi consiglia di usare il cellulare, ma di farlo con moderazione. Io non gli dico che lo faccio, che sento di essere nata controcorrente e che mi guardo sempre prima intorno e poi tutto il resto; non gli dico che posso dimenticare il cellulare rimanendo lo stesso felice. Non gli dico che da sempre mi chiedo come si possa dimenticare di curare la natura per scattare una foto ad una cioccolata calda che diventerà fredda a furia di aspettare la luce perfetta. Non glielo dico perché mi piace pensare che quel signore riempia i suoi occhi di ricordi nuovi, come quello di un consiglio a una ragazza. E a questo consiglio, seguono altri, che sono una conferma, necessaria, del mio (in)solito modo di pensare. Mi dice di non smettere mai di mettere in discussione, di farlo sempre, con intelligenza, con gli altri, di non accettare passivamente.
Mi guarda negli occhi. I suoi sono malinconici, i miei anche.
Con il cuore parla al mio cervello e mi dice che noi giovani non abbiamo un avvenire, che ci vogliono far credere che sia sbagliato sognare, ma che non per questo dobbiamo arrenderci. Arriva il momento in cui lui deve scendere. Mi tende la mano. Ce la stringiamo. Mi augura una buona giornata e una buona vita.
(In)solita mattina.
Io ci spero nel suo augurio, per me, per lui, per tutti. Ci spero per tutti quelli che provano ancora a realizzare i propri sogni, per chi non ce l’ha fatta e si è lasciato andare. Per chi ce l’ha fatta ed è rimasto la meraviglia che è.
Il marinaio lascia la barca con le ruote. Abbiamo navigato per un po’ le stesse acque. Non conosco il suo nome, ma conosco i suoi occhi. Il suo cuore mi ha parlato e in quell'(in)solita mattina, in cui il mio cervello non mi parlava – grazie a quel cuore – è tornato prepotente ad interrogarsi.
Scendo anche io qualche fermata dopo e ho gli occhi lucidi di chi, tra la verità, ha ricevuto anche qualche consiglio e mi rendo conto che il mio cervello, per qualche ora, si era anestetizzato e in quel non sentire nulla potevo trovare la pace, ma quella è davvero pace? Possiamo chiamare pace un sistema che ci annienta i desideri?
Preferisco il caos se questo significa sognare.
Preferisco gli occhi lucidi se questo significa non arrendersi.
Filosofa Atipica
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