Smart working. È finita la riunione. Doveva finire alle 13, sono le 13:20. Normale amministrazione. Il lavoro ormai per tutti è la vita e la vita ormai è… non so definirla, lasciamo stare.
Sono le 13:20.
Pausa pranzo.
Finalmente. Non ne posso più di avere il cervello sotto una macina di informazioni e le orecchie che devono dare ascolto alla gente che non sa di cosa stia parlando, ma ne parla comunque.
Posso respirare. Ho finalmente 40 minuti per ricordarmi di avere un’identità scollegata. Scollegata dal computer, dalla vpn, dai sistemi, dalle integrazioni. Per 40 minuti posso non essere più in apnea.
40 minuti, facciamo 50 va, mi voglio ricollegare alle 14:10. Mi sento ribelle oggi.
Esco.
In tuta ovviamente, ormai non so più che vestiti ho nell’armadio. Ho la mia tenuta da lavoro, e va bene quella.
C’è il sole. È bellissimo guardare il cielo, mi sembra quasi di avere la possibilità di liberarmi da questa vita che non sento mia. Prendo un caffè al bar. Queste saranno le uniche facce amiche – o umane – che vedrò fino a questa sera. Faccio indigestione di sorrisi, me ne serviranno tanti per affrontare la seconda parte della giornata.
Mi rimetto in marcia. Vedo il fruttivendolo. Ho finito la frutta, e senza mele non vorrei che ci sentissimo poi abbandonati. Prima di buttarmi a capofitto su di loro, do un’occhiata ai mandarini. Come sono arancioni, bellissimo questo colore. Sono sgargianti, beati loro – penso – io credo di avere il colore dei protagonisti di Pleasantville. Sono in bianco e nero.
Prendo una busta. Inizio passivamente a ricercare i mandarini giusti. Tolgo le foglie sopra, devo risparmiare, poi pesa troppo, e non vogliamo pagare per delle foglie che poi non mangeremo. Eccole lì, tutte quelle foglie che nessuno vuole mai. Accatastate. Mucchietti di foglie scartate. Faccio un cumuletto anche io e in fondo provo empatia per loro.
Continuo a ricercare scrupolosamente i mandarini giusti. Mentre ne prendo uno, lo giro e lo vedo rovinato. Lo rimetto insieme agli altri. Ne prendo un altro. Questo lo guardo ancora più attentamente. Anche questo è rovinato. Sono quasi indispettita. Su tre mandarini visionati, due sono rovinati. Andiamo al quarto. Questo è addirittura appiccicoso. Lo osservo, è ammaccato e da quella ferita sembra che stia piangendo. Metto via anche lui, non farà parte della mia busta di mandarini.
Mi fermo. Guardo tutti quei mandarini lì, belli all’apparenza, così arancioni, così splendenti, eppure, quando mi avvicino, sono rovinati. Provo compassione per loro, quasi mi dispiace di averli trattati male. Guardo quelle foglie, così verdi, così belle, eppure scansate, messe da parte in cumuli di inutilità. Quasi mi sento in colpa anche per loro.
Mandarini rovinati e foglie buttate.
In quelle ceste ci vedo tutti noi. All’apparenza belli, profumati, colorati. Non appena ci osserviamo bene, ecco lì: essenza rovinata, buttata, ammaccata. Piangiamo di nascosto, solo chi ci sfiora lo riesce a percepire.
A pensarci bene, mi sento proprio come quei mandarini. Scrutata, osservata. Dovrei sempre stare sul pezzo, nel pieno delle forze, dovrei sempre dire sì, posso fare tutto, solo per un posto nel mondo. Mi sento proprio come quei mandarini, sotto esame, costantemente, in competizione con tutti quelli che mi trovo accanto.
Guardo l’orologio. Sono le 14, devo sbrigarmi.
Basta con i pensieri, basta con i mandarini, ne ho presi un po’, anche quelli ammaccati alla fine. Mi sono detta che forse, una possibilità va data anche a loro. Non è detto che quell’essenza sia tutta da buttare. Su uno di essi ho lasciato una foglia, non me la sono sentita di staccare anche lei. Poi la butterò, ovvio, ma per un po’ ho l’idea di averla salvata e, per affrontare l’altra parte di giornata, mi sembra una buona sensazione.
Sono le 14:10. Mi ricollego a tutto, mi scollego da me. Vado in apnea.
A dopo.
Filosofa Atipica
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