«Però fatemelo di’: non è questo che sognavo da bambina.
Pensavo avrei fatto qualcosa di emotional e disruptive,
invece sono finita a dire parole come emotional e disruptive.»
Non è questo che sognavo da bambina è il romanzo di esordio di Jolanda di Virgilio e Sara Canfailla, che conosciutesi alla Scuola Holden di Torino, hanno avuto l’idea di scrivere questo romanzo per raccontare uno degli argomenti attualmente centrali della vita di ognuno di noi: il lavoro e l’ansia che ci provoca.
Dopo aver terminato la scuola Holden, le due scrittrici sono entrate nel mondo del lavoro, dello stage e ogni giorno si incontravano e si raccontavano la loro giornata lavorativa. Passavano i giorni e si rendevano sempre più conto di come fossero diventate monotematiche, di come i momenti insieme le vedevano parlare solo di lavoro. Si sono poi rese conto che questa ossessione non riguardava solo loro, ma tutti noi.
Tutti noi parliamo solo di lavoro.
Non è questo che sognavo da bambina racconta questo, dà voce a tutte queste situazioni lavorative che hanno visto tutti noi, almeno una volta nella vita, protagonisti.
Non ricordo affatto quando ho comprato questo libro, ma so perfettamente il motivo: Non è questo che sognavo da bambina vale anche per me. Ho iniziato qualche settimana fa a leggere questa storia, leggendo attentamente ogni frase, prendendomi il tempo giusto per rifletterci su, perché fin dalle primissime pagine, sentivo che stava leggendo me, e ho davvero bisogno di essere letta, essere capita, sentirmi meno sola.
Chi è Ida?
Ida è una ragazza neolaureata che sogna di fare la sceneggiatrice.
Io, un po’ di anni fa, ero una neolaureata che sognava di fare la scrittrice.
Sognatrice.
Ida mette per un po’ da parte i suoi sogni per fare uno stage come social media manager e poter quindi entrare nel mondo del lavoro e potersi permettere di raggiungere un minimo di indipendenza.
Io dopo la laurea – ma anche ora – avevo messo da parte i miei sogni per fare la web content editor. In entrambi i casi – nel mio e in quello di Ida – la scrittura è messa da parte e i sogni chiusi in cassetto.
Apatia e ansia entrano in scena.
«Un lavoro. Forse è questo che significa diventare adulti.
Ti siedi qui, lo accetti.
Non farai quello che avresti voluto fare, non sarai quello che avresti voluto essere. Ma sarai qualcuno.
Ida […] prende posto.
Si chiede se sia quello, il momento esatto in cui dovrebbe capire di aver fallito.»
La protagonista del romanzo non capisce cosa deve fare, quale sia esattamente il suo lavoro. Le affidano “compiti” senza contesto, dando per scontato che sappia esattamente cosa dovrebbe fare. Non c’è nessuno che le spieghi, se vuole sapere qualcosa, devo costantemente chiedere a qualcuno, sperando che quel qualcuno sia la persona adatta e che sia “scarico”.
Ida passa le sue giornate cercando quindi di capire in cosa consista il suo lavoro, aprendo excel che puntualmente non sono “parlanti”, visionando mail la cui unica cosa chiara è il mittente.
Inizialmente con i colleghi non riesce a integrarsi. Loro sono veloci, sempre sul pezzo, proattivi. I suoi colleghi sembrano accettare attivamente e senza drammi questo sistema fatto di riunioni sfiancanti e ritmi inumani. Non la invitano alle pause caffè o alle pause pranzo. Una piccola cerchia in cui devi essere invitato per farne parte, altrimenti sei out.
Ida è fuori dal sistema, Ida vuole essere fuori dal sistema, Ida non lo capisce il sistema.
Ida è sola.
Io ero sola.
La sua unica valvola di sfogo sono le mail che scambia con la sua migliore amica, in cui, come in un diario segreto, racconta il senso di frustrazione che vive ogni giorno. Racconta di tutti quei momenti in cui velocemente si chiude nel bagno dell’ufficio, e versa qualche lacrima per poi ricercare la maschera migliore con cui uscire di nuovo e affrontare tutto, vivendo con un conto alla rovescia nel cervello che le scandisce il momento per uscire dall’ufficio e porre fine all’ennesima giornata di vita sprecata.
Il conto alla rovescia della giornata. Lo facciamo tutti. È devastante. Lo faccio sempre.
Ida non riesce a capire la frenesia dei suoi colleghi. Non sono dottori, non stanno salvando vite, al limite non pubblicheranno un post su instagram nell’orario prestabilito. Che potrà mai succedere?
Un giorno però una sua collega, quella sul pezzo più di tutti, la guarda e le dice che dovrebbe smetterla di avere quell’atteggiamento, che anche se non stanno salvando vite, quello è il loro lavoro. Se Ida fino a quel momento si sentiva inadatta, ora si sente una ragazzina. Capisce così che forse dovrebbe cambiare approccio, che forse, per uno stipendio e quindi la prospettiva di potersi permettere una “carta igienica morbida”, vale la pena entrare nel sistema.
Scendere a patti.
Lo fa.
Allerta Spoiler
«Sai cosa? Sono stanca […]. Sono stanca di crederci così tanto.
Sono stanca di lottare, se poi alla fine devo restare con un pugno di mosche in mano […].
Forse voglio una vita più semplice, fatta di sveglie presto, di caffè alle macchinette, di conversazioni superficiali, di aperitivi la sera, di week-end rilassanti in montagna. Voglio la routine. Voglio che mi si dica brava quando faccio bene un lavoro. E che la dimostrazione più alta della mia competenza non sia attestata da un certificato di partecipazione, ma da una busta paga.
È vero, non è questo che sognavo da bambina, ma ti dirò una cosa: è questo quello che voglio da adulta.»
Fino ad un centinaio di pagine mi sono sentita molto vicina al personaggio di Ida. Ho provato una profonda empatia, come non mi capitava da molto con un personaggio di un libro.
C’è stato però poi un cambiamento molto profondo in Ida, che non ho più rivisto in me. Ida è stata totalmente inglobata nel sistema. Tanto è voluta entrare a far parte di quel gruppo, di quei ritmi, che ha messo da parte quello sguardo critico che inizialmente la caratterizzava profondamente.
Si è messa in competizione, voleva a tutti i costi emergere, anche a discapito di chi era come lei, una stagista, alle prese con un sistema che pretende sempre troppo da noi e che solo noi, tutti insieme, avremo il potere di fermare.
Non mi sono più rivista in Ida, la capivo, la comprendevo, ma non la riuscivo a giustificare. Io faccio parte del sistema, ma provo ogni giorno, con tutte le forze, a non farmi schiacciare o snaturare da esso. Che mi provochi smarrimento, solitudine o altro, non fa nulla, non posso e non voglio perdere me stessa, ciò che rende di me, me.
Forse l’amaro in bocca che mi ha lasciato questo libro è perché in fondo ci racconta la verità, e con verità termina le sue pagine. Forse questo mi ha fatto male, non mi ha dato speranza, mi ha fatto sentire meno sola, mi ha fatto sentire capita, ma forse alla fine volevo solo essere illusa, e – per fortuna o non – questo libro non lo ha fatto.
Non saremo mai davvero liberi dal sistema? Non avremo mai il coraggio tutti insieme di rovesciarlo?
Filosofa Atipica
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