La qualità è come un’onda.
Quel lavoro di qualità che pensavi nessuno avrebbe notato
viene notato eccome,
e chi lo vede si sente un pochino meglio:
probabilmente trasferirà negli altri questa sua sensazione
e in questo modo la qualità continuerà a diffondersi.
R. M. Pirsig

Quand’è stata l’ultima volta che ci siamo chiesti in che tipo di mondo vorremo vivere?
Siamo sempre convinti che non possiamo fare la differenza, che siamo gocce nell’oceano e come tali dobbiamo limitarci a vivere la nostra vita senza chiederci se e come le nostre azioni possano avere conseguenze ad ampio raggio.
Eppure siamo tutti indissolubilmente legati, da un sangue diverso, ma un respiro e un cuore che compiono le stesse azioni: ci permettono di vivere, e noi dovremo imparare a farlo sul serio.
Come? Perseguendo la qualità.

Sembra astratto, e in fondo lo è, ma spesso è ciò che non vediamo che fa la differenza.

Pensiamo all’amore: l’amore non lo si vede, al massimo lo si vuol vedere in un sorriso, in una carezza; ma l’Amore si può davvero dire che abbia una consistenza in carne ed ossa? Al massimo lo personifichiamo, e così facendo gli conferiamo un’esistenza tangibile, ma in fondo l’amore È, semplicemente. L’amore, pur non vedendolo, lo si sente con una tale forza da cambiare il mondo.
Fa più l’amore, anche se astratto, che un gioiello con un’esistenza concreta.

Alcuni tra i maggiori antropologi contemporanei, come Cesareo e Vaccarini, definiscono la nostra contemporaneità come L’era del narcisismo (2012): non a caso questo è il titolo del loro saggio in cui analizzano la nostra società tratteggiandone le caratteristiche maggiori. Queste si possono riassumere in una frase unica: siamo esseri chiusi in noi stessi, completamente concentrarti sui nostri bisogni, riversati esclusivamente nel nostro egocentrismo. Le persone che ci circondando le consideriamo nella misura in cui sono e ci sono utili e, il più delle volte, sono considerati solo come specchi in cui riflettere noi stessi.
L’emblema del narcisismo e di questa attenzione spasmodica della nostra immagine si manifesta nella moda del momento: i selfie. Questi rappresentano la massima espressione di un essere umano concentrato unicamente su se stesso senza nessun tipo di apertura intersoggettiva.

Questa chiusura ha come conseguenza il concentrarsi maggiormente sulla quantità piuttosto che sulla qualità, in ogni ambito.
Pensiamo alla voglia di possedere oggetti, tanti più ne abbiamo, tanti ne vogliamo, non riuscendo più a capire quale sia il limite – e la differenza – tra il bisogno, la vera necessità e lo “scrupolo“, il possederlo “tanto per averlo”.

Pensiamo alle foto: ne facciamo tante, così tante che sembrerebbe possibile giocare a trova le differenze. Eppure, di differenze non ce ne sono, se non una: quella con il passato, quando di foto ce ne erano poche, ma le si ricordavano e si sapeva scegliere quale tra tanti momenti era quello giusto da fermare.
Non è nostalgia del passato: il progresso è bello e fa indubbiamente vivere anche meglio. Si tratta piuttosto di nostalgia della qualità.

Abbiamo barattato la qualità per la quantità, per cosa? Per avere tanto, ma infinitamente vuoto?

Abbiamo una quantità enorme di fotografie, ma la qualità – e s’intende la qualità di momento fermato nel tempo – sembra non esistere più con la forza passata, quella che ci permetteva di sorridere di fronte al tempo che passa e alla meraviglia di poterlo intrappolare nell’eterno.
Abbiamo tante parole, ne usiamo tante, ma non badiamo mai alla loro qualità, e così ci perdiamo la possibilità di fare poesia con un sentimento o con uno sguardo.

Questo cercare la quantità si riversa anche – e soprattutto – nei rapporti interpersonali. Non interessa più quali amici abbiamo, ma quanti ne abbiamo. Così come non interessa quanto una relazione d’amore sia profonda e vera, ma quante relazioni abbiamo avuto nella nostra vita.
Questo snatura la qualità dell’amore, questo ci fa vivere esclusivamente nel mondo «io-esso» seguendo il linguaggio del filosofo Buber, il quale nel saggio Io e tu (1923), analizza proprio questo aspetto. Nel mondo «io-esso» i rapporti con gli altri esistono solo nella misura in cui ci sono utili, e solo nel mondo «io-tu» è possibile incontrare l’altro e istaurare una vera relazione.

Bonhoeffer fu un teologo e un filosofo del ‘900, che scelse di vivere la propria vita in onore della qualità e non della quantità. Visse solo 39 anni, ma fece di quegli anni un esempio che ancora oggi vale la pena seguire.
In molte tra le sue opere, in molte delle sue lettere spingeva a vivere perseguendo la qualità: lui stesso visse perseguendola.
Non dovremo fare la medesima cosa?

La mancanza di qualità ci getta nel caos.
La qualità è ciò di cui necessita l’essere umano per sfuggire la massificazione, l’omologazione che ci svuota di essenza conferendoci solo vana apparenza.
Il nostro tempo, ragionando in termini quantitativi, non fa altro che alimentare il consumismo che impervia su di noi, distruggendo la qualità della nostra vita.

Non dovremo cominciare a ragionarci sopra?

Filosofa Atipica per ArtSpecialDay

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