Sto crescendo.

È una cosa con la quale sapevo, che prima o poi, ne avrei dovuto fare i conti. Mi spaventava un sacco quando ero piccola. Mi ricordo che un giorno – avevo dodici anni – ho iniziato un pianto forte, di quello con i singhiozzi. Sono andata in braccio a mia mamma e tra le lacrime le ho detto: “io non voglio crescere“.

Forse avevo visto troppe volte Peter Pan e – forse – l’Isola che non c’è la preferivo già al mondo di oggi. Chissà.

Mi rendo conto che i miei dodici anni non sono come quelli di oggi. Probabilmente oggi a dodici anni hanno già fatto un corso avanzato di excel e uno sulla “guida alla crescita personale“. I dodici anni della mia generazione erano meno skillati, noi eravamo meno skillati. Menomale.

Insomma, sto crescendo, o così sembra quando scorro la tendina (picklist per fare la figa) per selezionare il mio anno di nascita. Sto crescendo e alla fine non sembra nemmeno tanto male. Se cresco vuol dire che sono viva, e non dovremo mai darlo per scontato.

Quindi benissimo.

Andiamo avanti.

Sto crescendo e da quando sono zia mi rendo conto che quel giorno – a dodici anni – non c’era bisogno che piangessi. Quando sono con mio nipote mi accorgo di come possa essere ancora quella ragazzina, e di come come possa diventare sua coetanea, o ancora, come possa essere anche più grande di come sono ora se c’è da difenderlo da uno spigolo troppo spigoloso.

Con lui mi accorgo come crescere sia faticoso, ogni giorno è una scoperta, ma anche un’impresa. Riuscire a centrare esattamente le formine è un lavoro, non solo un gioco. Purtroppo quando cresciamo, ce ne dimentichiamo, altrimenti ci renderemo conto di come siamo forti, anche se a volte crediamo il contrario.

Sto crescendo, ma da quando sono zia, mi sembra di non aver mai davvero perso la bambina che è in me.

Splash.

L’altra sera stavamo giocando, eravamo sul tappetone. A guardarlo bene sembra l’Isola che non c’è, un piccolo quadrato morbido fatto di colori e disegni. In quei momenti sono sull’Isola che non c’è.

Eravamo impegnati a capire quale chiave colorata aprisse la rispettiva porta dello stesso colore, quando la bambina che è in me mi ha fatto fare splash.

Letteralmente stesa a terra, con tanto di rumore delle braccia che arrivano a toccare il pavimento e della voce che urla “splash“. Mio nipote si gira, mi guarda. Io lo guardo e rido. Non so perché quello splash mi fa tanto ridere. Mi accorgo che in realtà fa ridere la bambina che è in me.

L’accontento.

Splash.

Di nuovo. Vedo gli occhietti di mio nipote che brillano. Si alza. Lascia stare il lavoro delle chiavi colorate. Aspetterà. Si avvicina verso di me e splash. Mi atterra con il faccino sulla pancia e ride. Rido anche io. Si rialza, mi tira la manica. È il suo modo per dirmi che vuole farlo di nuovo.

Splash.

Ride, si tuffa di nuovo verso di me. Rimane per qualche secondo così, con il faccino sulla mia pancia, gli occhi che brillano mi guardano. Mi sorride, io mi perdo in quella brillantezza. Riesco a specchiarmi nei suoi occhi, così puri, così profondi, così veri. Ci trovo il senso della vita.

Splash.

Lo facciamo di nuovo. È sempre bello, fa sempre ridere tanto.

Splash.

Dimentico tutto. Dimentico che sono cresciuta, che le cose forse non sono come le avrei volute quando avevo dodici anni.

Splash.

Dimentico gli impegni, dimentico il lavoro che è sempre di più rispetto a quello che riesco a fare. Dimentico che arriverà la bolletta del gas. Dimentico che l’amministratore ancora non mi ha risposto.

Dimentico, e nel farlo, mi ritrovo.

Splash.

Mio nipote ride, io sono per un momento una persona migliore.

Abbiamo la nostra Isola che non c’è.

È bellissima.

Splash.

Filosofa Atipica

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