Al centro delle riflessioni dell’essere umano c’è da sempre il lavoro. Cos’è il lavoro? Perché è così importante? Lavoriamo per vivere o viviamo per lavorare? Sono queste le domande che affliggono l’essere umano da tempi immemori, perché il lavoro rappresenta parte della nostra esistenza, o almeno dovrebbe rappresentarla. Perché usiamo il condizionale? Forse perché oggi questo “rappresentarci” non ci appartiene più?
Ma ci è mai appartenuto?
In questa sede non avanziamo risposte, sarebbe troppo azzardato farlo, ma l’intento è quello di spingere alla riflessione su quanto viviamo, in particolare su come viviamo il lavoro, o meglio ancora su come questo ci permette di viverlo. Sembra assurdo, ma in fondo è proprio così: oggi il lavoro viene percepito come un’entità a cui arrivare, un’entità che sembra però inarrivabile. E quando ci si arriva? Ecco, quando ci si arriva la situazione non sembra migliorare, perché molto spesso non siamo felici e non lo siamo in parte perché la nostra natura è caratterizzata dall’insaziabilità e in parte perché il modo in cui oggi viene strutturato il lavoro non permette all’essere umano di realizzare quella che – almeno in parte – rappresenterebbe la propria essenza.
Rientrano qui le riflessioni di Richard Sennet che nel 1999 scrive L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale. Riflettere su questo testo ci aiuta a comprendere che quella sensazione di incompletezza che nasce da un lavoro che non ci appartiene, non è causata solo dal nostro modo di essere, ma anche – e soprattutto – dalle nuove modalità con cui è stato impostato il lavoro. Flessibilità è il must che si richiede in ogni tipo di lavoro. Ma quando si legge questo, si comprende davvero la portata di quanto ci viene chiesto? Flessibilità non è sinonimo di disponibilità, ma equivale a cedere quella plasticità che ci rende infinitamente unici dal momento che ci permette di avere potere su quello che siamo. Sennet scrive:
«Tutta l’enfasi viene posta sulla flessibilità […]. Ai lavoratori viene chiesto di […] essere pronti ai cambiamenti con breve preavviso, di correre continuamente qualche rischio […]. L’attenzione rivolta alla flessibilità sta cambiando il significato stesso del lavoro, e anche le parole per definirlo […]. Oggi [sono stati cancellati] i percorsi lineari tipici delle carriere […]. È del tutto naturale che la flessibilità generi ansietà: nessuno sa quali rischi valga la pena correre, o quali percorsi sia opportuno seguire.»
Ecco riportato il problema del lavoro oggi che merita una riflessione. Prima esisteva il concetto di career che rimandava alla “strada dei carri”. Il lavoro veniva quindi considerato come una direzione intrapresa dall’individuo che si protraeva lungo il corso della propria vita. Oggi si parla di job che rimanda invece alla parola “blocco”: il lavoratore è chiamato a svolgere “pezzi” di lavoro. Quali sono le conseguenze? All’individuo viene negata la possibilità di seguire una direzione stabile lungo la propria vita con conseguenze dirette sulla qualità della vita stessa.
Viviamo in un’epoca difficile e come ogni epoca difficile ci portiamo dietro un problema. Tra i tanti, quello che oggi attanaglia le vite di quasi tutti gli individui è il lavoro. Disoccupazione giovanile, licenziamenti e conseguente disoccupazione, ricerca di un lavoro in quell’età in cui si dovrebbe andare in pensione: sono tutte parole che sentiamo ormai quotidianamente. Sono tutte realtà che ognuno di noi sta vivendo, che ognuno di voi ha visto vivere, e purtroppo anche perderci la vita stessa. Da cosa dipende? Da noi, da chi ci ha preceduti? Quale logica illogica si nasconde dietro questo lavoro che danna l’esistenza? E perché dobbiamo a tutti i costi trovare un colpevole invece che cercare una soluzione? Ai quanti potranno controbattere che pensare una soluzione non la rende reale, la risposta è che è vero, ma è altrettanto vero che la riflessione e la consapevolezza è ciò che mancano proprio oggi, con la conseguenza che l’essere umano ha smarrito quell’essenza che lo rendeva unico.
Senza entrare nei dettagli che non ci competono, con la speranza di non far sentire chiamati in causa chi si trova nella terribile condizione di essere senza lavoro, con una famiglia da mantenere, o un’indipendenza da conquistare, quello su cui ci si è voluto riflettere è come oggi la questione del lavoro ci stia facendo indubbiamente ammalare, dal momento che non rappresenta quella linearità tipica della career, quindi di un percorso che realizzi pienamente l’individuo. Inutile girarci attorno, l’essere umano ha bisogno di sentirsi realizzato, pena la morte dell’anima, che non è tanto diversa da quella fisica. A cosa serve renderci consapevoli se comunque si rimane senza lavoro o con uno che non ci rappresenta? A niente, o forse a tutto, un dato è certo: la possibilità di rispondere e comprendere criticamente quanto viviamo è uno dei pochi strumenti che rappresentano una risorsa per l’umanità. “Comprendere criticamente” viene inteso in senso kantiano, quindi come la possibilità di esercitare il nostro intelletto così da avere il coraggio di porci le giuste domande e concederci la possibilità di darci una risposta.
Dovremmo smetterla di sembrare automi che rispondono “sì” ad ogni cosa viene loro propugnata, anche se palesemente dannosa, e il modo giusto per iniziare è svegliarci da questa sorta di anestesia ed esercitare il pensiero critico fondamentale per farci riscoprire nella nostra essenza.
Filosofa Atipica per ArtSpecialDay
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