Cara società, caro essere umano che formi la società, ti racconto una storia che parla di sogni e paure.
Ti va di ascoltare?
Quando avevo undici anni ci fu l’attentato alle Torri Gemelle. Fu quella, forse, la prima volta in cui mi resi conto che l’uomo era spietato, era violento, che era l’odio a far muovere i suoi passi.
Quello stesso anno, qualche mese più tardi, mio nonno morì. Tumore al quarto stadio. Cinque anni di sofferenze, di cure, alti e bassi e poi il vuoto. Fu quella la volta in cui provai il dolore di quando qualcuno che amiamo smette di essere nella nostra vita. Lì compresi cosa voleva dire farsi promettere qualcosa: rischiare di far soffrire chi sa di non poter mantenere la promessa. Molte volte infatti, mi feci promettere da mio nonno di non abbandonarmi.
La ricordo ancora quella mattina di tanti anni fa. Ricordo benissimo il rumore di una promessa che non fa in tempo a nascere, che già svanisce.
Da quell’esperienza imparai tante altre cose, fra tutte quella che a volte il destino sa essere crudele quasi quanto l’uomo, solo che forse il destino lo fa senza volerlo.
Qualche anno dopo, ho imparato che anche la natura sa essere spietata, quasi quanto l’uomo, quasi quanto il destino. Tsunami in Thailandia. Io che guardavo le luci dell’albero di Natale, mentre, dall’altra parte del mondo non c’era una luce a dare la speranza del domani.
In quelle tre occasioni diverse, c’era una costante: ero impotente.
La gente si buttava da un grattacielo per decidere almeno in che modo morire e io potevo solo interrogarmi su questa cattiveria che alberga il cuore dell’uomo. Mio nonno mi lasciava le mani e io potevo solo piangere su quelle mani che per la vita erano state la mia ancora di salvezza. Io festeggiavo un Natale che passava e la gente era trascinata nel nulla dalla forza della natura.
Non potevo fare niente.
A intervallare queste tre esperienze ce ne furono altre, prima e dopo. Momenti in cui mi rendevo sempre più conto quanto fossi impotente, quanto non avevo nessun potere su quanto accadeva fuori, e dentro di me. Proprio così: il mondo crollava e io con lui.
Sensibilità, così la chiamavano questa mia caratteristica di essere solare con la testa fra le nuvole e le lacrime ai bordi degli occhi. Io questa sensibilità non la capivo, sentivo solo il cuore che mi fa faceva male e le voci alte che mi facevano paura. Comunque non potevo fare nulla, non avevo potere. Mi limitavo a prendere atto di ciò che succedeva e mi domandavo perché.
Incontrai un giorno la Filosofia, scoprendo che nasceva proprio da un perché e veniva alimentata da domande, proprio come me. A malincuore iniziavo a scoprire che anche la Filosofia muore lentamente oggi che tutti si chiedono sempre meno perché e accettano passivamente sempre di più. Sono passata attraverso gli ionici che non pensavano tanto all’uomo, quanto a cosa ci fa stare qui. Poi arrivai velocemente alla Grecia. Fervore intellettuale, domande senza risposte e risposte senza domande. Socrate che non scrive e Platone che parla per lui. Ci hanno plasmati e siamo qui, siamo qui e ci sforziamo di capire cose che in fondo sappiamo da sempre, ma dimentichiamo ancora prima di nascere. La nascita. Ho immaginato che davvero – come miticamente narrava Platone – fossi in un limbo a scegliere ad occhi chiusi la mia vita. C’è una seconda possibilità? E poi arriva Aristotele. Siamo tutti un po’ più scientifici e tutti un po’ bisognosi di cercare la nostra felicità. Qual è la felicità? Non credo sia fiero di me oggi Aristotele, mica sono tanto felice.
E poi voliamo al medioevo. Il buio di chi ha paura di osare il pensiero e cominciamo a credere che il demiurgo sia un Dio e che questo ci abbia creato. E chissà chi abbia ragione. Toc toc, saltiamo un po’ di anni, abbiamo Kant che mi stampa in mente, riprendendo il caro poeta Orazio: “Sapere Aude“.
Io ce l’ho il coraggio di conoscere, e non lo voglio perdere anche se ogni giorno, in fila per il senso della vita, ogni tanto smarrisco questo coraggio. In questo avvicendarsi di pensieri e teorie il filo conduttore che mi spingeva a studiare ancora e ancora era che intorno a me chi amavo andava via per sempre, il mondo cadeva su se stesso e l’essere umano continua a farsi la guerra. Sappiamo andare sulla luna e tornare, sappiamo parlare solo con gli occhi, eppure ci spingiamo nel baratro della violenza senza confini.
Un giorno tra questa Filosofia incontrai una Professoressa che da ibrido quale era, mi trasmise un po’ del suo essere atipico. Iniziai a studiare la mente, il cervello. Studiavo come funzioniamo per capire perché a volte la nostra empatia entra in stand-by. Studiavo i miei meccanismi perché avevo il disperato bisogno di cambiare e darmi così la possibilità di rendermi felice. La felicità è una scelta, lo avevo capito qualche tempo prima, quando per terra inerme dipendeva solo da me rialzarmi.
Nacqui così per la seconda volta: Filosofa Atipica.
Sono questo. Una filosofa perché qualcuno un giorno mi ha proclamato tale dopo un percorso di cinque anni, ma sono atipica, perché io da sempre odio le convenzioni e preferisco guardare sempre più in là del senso comune.
Vi lascio il tramonto, io preferisco l’alba.
Filosofa Atipica
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